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venerdì, Aprile 19, 2024

Edoardo Raspelli // L’Intervista // Valerio Massimo Visintin

Raspelli, cosa pensi del momento che sta attraversando la critica gastronomica?

La critica…? Cos’è quella roba lì?

Sorride ma non scherza, Edoardo Raspelli, assestando la sua prima stoccata.

Sorrido anch’io e insisto: la critica gastronomica…

Non so. Non esiste. Anzi, la critica gastronomica è fatta da due persone. Io e te. Gli altri riportano le loro esperienze, talvolta fatte per telefono, quasi sempre non pagando. E facendo solo complimenti. Non esiste un canale dove si dica quello che va e quello che non va”.

Che cosa posso ribattere? Arrossisco. E mi va bene che non lo nota, dato che siamo al telefono.

Comincia così questo ciclo di interviste per Excellence Magazine. Non potevo esordire con altri nomi, perché Raspelli è uno dei miei inconsapevoli maestri. Anche se, in fondo, ci separano all’anagrafe soltanto tre lustri.

Prendetevela con lui: è il principale responsabile del mio impegno professionale. Dal suo esempio quotidiano, ho dedotto i tre comandamenti ai quali rigidamente mi attengo.

1 – Visitare i ristoranti soltanto in incognito.

2 – Riferire al lettore la verità, tutta la verità, nient’altro che la verità.

3 – Cercare di scrivere in bello stile, se si può.

Raspelli rappresenta un pezzo unico nel panorama nazionale. Il racconto gastronomico era nato lentamente nel dopoguerra, transitando dal folklore letterario di Soldati al pionerismo esplorativo di Veronelli. Entrambi, tuttavia, limitavano il ruolo a una accezione divulgativa. Le recensioni vere e proprie nascono con la finissima e finalmente spietata arguzia di Raspelli.

La stessa che impiega oggi, analizzando ristoranti e alberghi (altra specialità di suo brevetto) per il quotidiano La Stampa. Mentre, nel frattempo, assolve anche gli impegni pedagogici dei suoi due predecessori, raccontando l’Italia del buon cibo per Melaverde, su Canale 5.

Ma lo sai come ho cominciato? Io ero assunto al Corriere di Informazione, il giornale del pomeriggio del Corriere della sera. Era il 1975. E mi occupavo di cronaca nera. Un giorno, il direttore Cesare Lanza mi convoca nel suo ufficio.

Mi fa: Vorrei affidarti la pagina dei ristoranti; vai, mangi, paghi. Che poi ti rimborsiamo. Però, devi scrivere anche se il ristorante è cattivo”.

Ai tempi, c’erano i rimborsi del giornale. Adesso, gli editori non assumono, pagano gli articoli con mancette indecorose e di rifondere le spese ne parlano nemmeno. Cosa può fare un giovane che aspira all’incerta carriera del critico gastronomico?

Niente. Basta. Il giornalismo è finito, la carta stampata è finita. Chi vive di giornalismo puro in questo settore? Quasi nessuno. Per la maggior parte dei colleghi, il vero business è organizzare manifestazioni. Saranno anche bravissimi a farlo. Non li giudico. Ma non è giornalismo. Il food è ormai una grassa, colossale, spropositata marchetta”.

E dobbiamo rassegnarci?

Dobbiamo contare sul nostro individuale eroismo. Ma non so se la gente abbia il coraggio di ribellarsi. I giornali non li compra più nessuno. E all’informazione chi ci crede più? Personalmente mi sento schiacciato da questa massa di notizie incontrollabili.

Sei più pessimista di me. Ma una luce di speranza?

Sì, un aspetto positivo è che in questi ultimi anni anche in Italia abbiamo cominciato a valorizzare i cuochi. Ci sono bravi e grandi cuochi che meritano le loro vetrine”.

Ma non staranno un po’ troppo in tivù?

Non è tanto la loro presenza in televisione che mi preoccupa. Il guaio è che hanno generato dei modelli di cazzeggio puro. Persino io, che ho una certa esperienza, apro i menu e non capisco cosa scrivono”.

Menu indecifrabili?

E piatti senza senso. Un giorno mi arrivano delle capesante, le mie amate capesante, avvolte nel guanciale. E fin qui, tutto bene. Ma con una crema di panna e liquirizia che non c’entra niente. Oppure, in un altro ristorante, mi arriva una palla di cioccolato con dentro una mousse, anch’essa di cioccolato. Però, è immersa in una fondina con dell’olio extravergine. Cascano le braccia…”.

Occorre del coraggio per fare il critico di ristoranti e servire al lettore la verità?

Eh, direi. Un po’ sì. Una volta, molti anni fa, un amico introdotto in certi ambienti mi chiama:

-Ma tu hai stroncato il ristorante Vecchia Milano?

-Sì, perché?

-Ma lo sai che volevano ammazzarti?

-Che cosa? Chi?

-È il ristorante di Francis Turatello!”

Turatello, per chi non se lo ricordasse, era il supercriminale che spadroneggiava a Milano negli anni Settanta.

Prima attenuarono la pena, decidendo di gambizzarmi. Poi, mi risparmiarono. E infatti sono ancora qui a dirvi la mia su ristoranti e alberghi”.

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